Un viaggio nella psiche del runner fra propensioni, sindromi e paure


Avere a che fare col mondo del running e con tutti gli appassionati che lo affollano è per me un grande onore e una fonte inesauribile di curiosità.

In questi anni di coaching ho avuto il piacere di conoscere atleti dotati, sportivi dal buon talento, ma anche semplici “tifosi” dello sport, amanti del movimento, che corrono per il puro piacere di farlo, per divertirsi e godere di ogni aspetto che la corsa e le manifestazioni sportive che la riguardano sanno regalare. 

Vivo tuttora l’incredibile agonismo che alimenta questo mondo, a volte aspetto fin troppo serio, che rende certi sportivi amatori più severi con loro stessi dei professionisti stessi.

Avendo a che fare continuamente con sportivi di vario genere ed essendo per propensione molto sensibile nei confronti di chi mi trovo di fronte, cerco il più possibile di immedesimarmi nei desideri e nei modi dei miei interlocutori, metodologia che spesso mi aiuta a trovare la via giusta per “accedere” alla motivazione principe dell’atleta e, nel caso, riuscire a trovare la scintilla per “accenderlo”, quando necessario.

Devo dire che non è sempre semplice, anzi tutt’altro.

Ci sono diversi schemi che uso per “classificare” (passatemi questo brutto termine) le varie tipologie di atleti e in questo scritto vorrei tracciare nel “mucchio” un primo grande solco a livello caratteriale, magari inserendo qualche particolare in più sulle propensioni, le sindromi e le paure classiche dello sportivo, sperando che anche chi legge possa riconoscere qualche tratto distintivo di sé, traendone magari chiarimento.

Questo primo grande solco divide i runner in 2 insiemi più o meno omogenei: gli ottimisti e i pessimisti.

  • gli ottimisti sono quelli che in generale tendono a percepire la propria vita sportiva, gli allenamenti e le gare, con il segno + davanti. Per queste persone una sconfitta o un fallimento sono sempre visti come un momento di crescita, un passaggio per rilanciarsi. Sono di solito persone sempre più dinamiche nel senso positivo della parola e tendono a soffrire meno il peso di una qualsiasi gara. In generale personaggi sempre propositivi con cui è più facile collaborare e trovare una strategia vincente.


  • pessimisti sono esattamente il contrario. Sono in genere quelli a cui bisogna sempre dire la parola in più, dare l’incoraggiamento giusto perché la tendenza è quella di chiudersi verso atteggiamenti negativi. In questo insieme di persone esiste una certa predisposizione fine a sé stessa a soffermarsi sugli errori passati, a richiamarli incessantemente, come se l’errore fosse un peso costante, un problema irrisolvibile. “Schiodare” questi atleti dalle proprie paure non è un gioco semplice: con questa tipologia la direzione giusta si intraprende camminando a piccoli passi verso l’acquisizione di una fiducia sempre più solida. La politica dei piccoli passi verso traguardi vicini e raggiungibili in questi casi può pagare parecchio.


Detto ciò, è anche vero che non esiste un solo specifico modo di rapportarsi con una persona di uno o dell’altro gruppo poiché all’interno di queste 2 “propensioni basali” ci sono tante altre sfaccettature che, tutte insieme, indirizzano l’allenatore verso un certo tipo di collaborazione piuttosto che un’altra.


Come anticipato prima, vorrei portare qualche esempio delle peculiarità e delle propensioni più tipiche dei runner: quelle che nascono inconsciamente e si manifestano attraverso atteggiamenti, ansie e paure nella vita sportiva.


#1

Una delle cose più stressanti in assoluto che attanaglia il podista (e gli sportivi tutti) è l’ansia da prestazione, l’ansia della gara. Ed è, devo dire ahimè, anche uno dei motivi più marcati di fallimento. Chi è soggetto a farsi prendere da questo tipo di attivazione nervosa tende a percepire stress formidabili anche giorni prima della competizione, arrivandoci fisiologicamente “provato”, anche senza aver sostenuto allenamenti particolarmente faticosi. Spesso ho visto questo tipo di reattività alla competizione nei soggetti pessimisti, anche se non solo. Sottolineo però che negli atleti più spiccatamente ottimisti, bene o male, alla fine tende sempre a predominare una visione più costruttiva che smorza l’ansia da prestazione, ponendola su un piano più gestibile. 


 #2

Al contrario, ogni tanto mi capita di avere a che fare con sportivi che sotto pressione danno il meglio di loro stessi: personaggi che nella competizione e nella difficoltà trovano un modo per mettersi alla prova. Al di là dell’ottimismo di base, in questi atleti esiste una propensione all’adrenalina, quasi come fine ultimo. La competizione viene ricercata come la caffeina da chi beve caffè. Devo dire una tipologia molto stimolante da allenare, ma spesso da tenere “frenata”, perché molto propensa a super-lavorare (o lavorare troppo seriamente rispetto agli obiettivi in ballo) e ad infortunarsi. 


 #3

Una declinazione mista fra gli ultimi due gruppi analizzati sono i tanti atleti che si fanno prendere dalla “paura dell’arrivare” (o di vincere). Quelli cioè che costruiscono bene, ma durante la competizione stessa, proprio gli ultimi km, al sopraggiungere di un calo di tensione emotiva (si sentono già all’arrivo?) oppure della fatica o di un qualsiasi altro inconveniente (piccolo dolore o risentimento), mollano. In questo caso è inevitabile parlare di atleti “vincenti” o “perdenti” poiché anche i paragoni con gli altri sport si sprecano. Avete presente i tantissimi campioni di calcio, basket, tennis… magari fortissimi, ma che scompaiono nelle partite veramente importanti? Mi viene in mente gente come Pippo Inzaghi, Cristiano Ronaldo… o nel basket, Michael Jordan, atleti che proprio nei momenti finali di una gara spesso riescono (o riuscivano) a dare il meglio di sé. Cesarini stesso, colui che ha dato il nome alla famosa “zona”: quegli ultimi minuti fondamentali di un match in cui cambiava l’esito di una partita. Dall’altra parte Higuain, Ibrahimovic, Messi… personaggi “bollati” come inesistenti nelle partite che contano. Parlando di running, gli ultimi km di una gara sono quelli in cui veramente dare tutto, in cui la concentrazione richiesta diviene fondamentale per una buona riuscita finale. La testa e la propensione verso la fatica in quel momento fanno la differenza. A livello inconscio, una cosa da combattere per gli atleti che hanno “paura di vincere” è proprio il calo emotivo. Perché mentre la tenuta fisica alla fatica si può allenare, quella mentale è molto più influenzabile e meno gestibile direttamente. Per quanto mi riguarda, la costruzione di questa caratteristica richiama un po’ l’approccio di cui parlavo prima riguardo all’atleta pessimista: la politica dei piccoli passi. Bisogna innanzitutto che l’atleta riconosca il momento in cui il problema sopraggiunge e che, da lì in poi, si ponga piccoli step raggiungibili, semplici momenti di focus mentale che, uno dopo l’altro, costruiscono il finale di una buona performance. Bisogna vedere tanti traguardi da tagliare, fino a quello reale. 


#4

Vorrei poi aprire una grande parentesi sul gruppo in qualche modo più affollato: tutti i runner con la scusa. Sono tantissimi e sono quelli che ogni domenica hanno un problema diverso. “Come va?”…”Così così. Stanotte non ho dormito perché la piccola ha avuto mal di pancia. Sarà durissima.” Oppure: “Sono 5 giorni che ho mal di schiena, il mio fisioterapista dice che è una questione di postura quindi non ci posso fare nulla, mi tocca correre col male” o ancora: “Oggi è un allenamento quindi me la prendo comoda, mi faccio un medio. Le gare che mi interessano sono altre”… salvo poi vederli stremati all’arrivo… e le altre gare non arrivano mai… Questi sono solo 3 comunissimi esempi ma ce ne sarebbero migliaia. Si tratta semplicemente di trovare una scusa in grado di giustificare più a sé stessi che agli altri un probabile fallimento. Alla fine va bene? Ce l’ho fatta malgrado il problema posto. Va male? Per forza, avevo quel problema. Tutto lo schema si basa su una grande insicurezza di base e una non accettazione del proprio fallimento. Una sorta di “pessimismo inconscio a priori” che si traduce nella scusa che viene inventata, un modo per proteggere sé stessi: ci si mette in una posizione svantaggiata per evitare di fronteggiare i propri limiti ed incapacità. Questa strategia ha una forte connotazione competitiva. I “runner con la scusa” in allenamento stanno sempre benissimo! Poi in gara (o quando si avvicina la gara), chissà perché, spuntano “i problemi”.

Se vogliamo parlarci meno seriamente, questo tipico problema rimane forse quello più simpatico fra quelli descritti. A volte è incredibile il quantitativo di scuse diverse che vengono inventate e ascoltarle diventa una sorta di barzelletta.

L’importante, se si vuole migliorare da questa “sindrome della scusa”, è cominciare ad accettare i propri limiti come normali e, almeno qualche volta, cercare di evitare invenzioni degne di un film di Spielberg per spiegare un trentesimo posto alla sagra dello zampone di Occhiobello…..non tanto per gli altri, quanto più per sé stessi!


#5

Concludo questo piccolo viaggio nella psiche del runner ricordando la grande schiera di corridori “alla semplice ricerca del piacere”, un gruppo a cui il running dona benessere nella pratica stessa del suo gesto.

Non esistono gare e competizioni che possano mettere in crisi queste persone, poiché essi corrono perchè a loro piace correre, nient’altro. Questo insieme è quello più portato verso una pratica longeva e salutistica di questo sport mentre i più competitivi, a meno che non cambino propensione con gli anni, saranno sempre quelli più a rischio salute (leggasi infortuni etc.) poiché tenderanno ad allenarsi sempre “sul filo di lana”.

Bisogna ricordare inoltre che a livello di classificazione personale delle motivazioni per cui si pratica sport, spesso ci si dimentica di cosa conta veramente: la salute dovrebbe essere il motivo principe e dovrebbe venire sempre al primo posto.

Questo sia per un atleta giovane, sia, a maggior ragione, per uno più attempato.

Lo sport deve portare crescita e beneficio IN OGNI CASO. Quando porta altro significa che, in un qualche modo, è stato male interpretato.

Cerchiamo per favore di ricordarcelo.


Alla prossima,

D.